Sulla macchina (….ehmmm sulla moto) del tempo (viaggio nella terra dell’utopia)

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E’ da un po’ che viaggia nella mia mente l’idea di visitare, uno ad uno, tutti quei paesini dove il concetto di famiglia allargata non si estende solo agli zii, ai nipoti, ai nonni, ai cognati ecc… ecc…, ma all’intera comunità abitativa, dove tutti i cittadini, e dico proprio tutti, si conoscono per nome (e per soprannome), dove, se vai in Comune per un certificato, l’archivio anagrafico è raccolto tutto in un solo cassetto, dove il postino non ha bisogno della via e del numero civico ma solo del nome e cognome per consegnare la posta.

Per censire i loro abitanti non c’è bisogno di saper contare fino a mille, a volte ci si ferma molto prima e l’intreccio delle vie è poco più grande della tela di un ragno.

La mia fortuna è quella di abitare in prossimità di una regione che ama collezionare questi piccoli scrigni, uniti l’uno all’altro da strade tortuose, fantastiche da percorrere in moto, a patto che, ogni tanto, si sacrifichi la guida sportiva in favore di quella slow per non rischiare di vedere troppo da vicino qualche bella buca alla quale le varie amministrazioni regionali, provinciali, comunali ecc… sono talmente affezionate da lasciarle lì, perennemente, per la gioia degli ammortizzatori e delle colonne vertebrali dei viandanti.

Allora decido di battezzare questa idea e via, parto, e so già che tornerò arricchito, non solo di ulteriori chilometri percorsi sul mio cavallo d’acciaio, ma anche e soprattutto di una nuova dimensione costituita prevalentemente da umanità.

Valico, si fa per dire (in Puglia non abbiamo le Alpi), il mio confine regionale e, come per incanto, la nuova regione trasforma il paesaggio in qualcosa di fiabesco, offrendo agli occhi un susseguirsi di colline che sembrano infilate come perle in una preziosa collana.

E’ facile immaginare cosa mi aspetta vedendo già da lontano le strette strade, asfaltate e non, che si poggiano sui pendii contrastando il verde dei campi appena coltivati a frumento ed i boschi selvaggi che tengono insieme una terra nota per le sue rovinose frane.

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Già le frane, il loro protagonismo, nella regione che sto attraversando, prende le strade e le fa sembrare simili a quei nastri che fluttuano nelle mani delle danzatrici di ginnastica ritmica, facendo sobbalzare la moto come fossi sul tagadà di un lunapark, ma ne vale la pena, l’orizzonte appare e scompare dietro i profili delle dolci alture, giocando a nascondino col mio sguardo che lo insegue sperando, inutilmente, di raggiungerlo. Anche se potessi, comunque, non andrei al galoppo, il trotto è il passo giusto per ammirare appieno quello che mi circonda.

Naturalmente non sono i cartelli di “pericolo per ponte pericolante” o per “strada interrotta” a fermarmi, anzi gettano benzina sul fuoco del mio spirito d’avventura e di esplorazione che mai si sopisce.

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Così, alternando strade mezze franate ad asfalti perfetti, stesi su curve che è un piacere mordere, intravedo il primo piccolo centro di oggi.

Bianco, in una piccola cascata di case, si staglia, arroccato, sulla cima della verde collina che lo difende, questo gioiellino conta meno di 500 anime.

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E’ un piacere ammirare dal basso la strada che si inerpica fin su, farla è ancora di più, poche pieghe, s’intende, giusto il necessario per dondolare un po’ prima di entrare nel borgo.

Ad accogliermi questo significativo cartello.

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Qui dentro (nel borgo, intendo) è il vero piacere, ogni persona che incontro saluta lo “straniero”; inizialmente ricambio il saluto degli indigeni con l’indice ed il medio della mano sinistra messi a lettera V (il saluto convenzionale di noi cavalieri su due ruote), ma noto che mi guardano in modo strano, come a dire: “Ma questo perché fa il segno della vittoria”!? Ehm, scusate – penso io – avete ragione, ma che saluto è questo? Forse è il caso di salutare come le persone “normali”, alzando semplicemente la mano.

Da quel momento solo sorrisi, qualche anziano che per camminare si aiuta con un bastone, per salutarmi, ne solleva lievemente la punta dal terreno, certamente non in segno di minaccia ma di benvenuto. Non riesco più ad abbassare la mano sinistra!!

Il borgo si sviluppa (è una parola grossa!) su due livelli, uno più alto ed uno, subito sotto, più basso (vi ricordate della piccola cascata di case bianche?) legati da una serie di stradine, larghe (anche questa è una parola grossa!) al massimo un metro e mezzo, che parallelamente si “tuffano” da sopra a sotto con pendenze anche superiori al 20%; ….che poi….un metro e mezzo si fa per dire, da muro a muro, da casa a casa, ma molte abitazioni hanno un paio di gradini davanti all’uscio, quindi la “carreggiata” si restringe ancora di più! Ma la moto ci passa, eccome! Ed allora….vai!!! Da su a giù, da giù a su, da su a giù…l’ho fatto tutto così il paesino (mi avranno preso per matto).

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Già immagino quando qui nevica, con la ciambella di camera d’aria sotto al cu… ehm… al sedere, iuhuuuuuu……

Finita la giostra e scambiati gli ultimi saluti sempre con la sinistra alzata (aho, ma che so’ er Papa sulla papamobile? – mi scusi Sua Santità non volevo essere blasfemo), imbocco la via che lascia il borghetto per dirigermi verso la prossima meta della mia giornata.

Sono smanioso di arrivarci, non solo per “spuntare” dalla lista un altro piccolissimo agglomerato di case, ma soprattutto perché il luogo che andrò a visitare è stato, o meglio avrebbe voluto essere, citando Karl Marx, “il disegno di una società perfetta, proiettata in una dimensione spazio – temporale indefinita, dove gli uomini realizzano una convivenza felice”.

Mado’ ma dove sto andando? Se avete la pazienza di scorrere ancora qualche riga ve lo svelerò!

Chi va in moto sa benissimo che si conosce l’ora in cui si parte ma non si sa l’ora in cui si arriva; si, perché, nonostante la smania di arrivare, non posso non arrendermi a quello che il paesaggio mi offre ed alle persone che incontro.

Il primo stop è un antico ponte di pietra che, curvando con una prospettiva fantastica, unisce due speroni rocciosi e boschivi, sovrastando altissimo un canyon dal fondo ricco di selvaggia vegetazione; la foto è d’obbligo.

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Metto la moto sul cavalletto, mi allontano per far si che tutto rientri nell’obiettivo, e dopo lo scatto scorgo più in là un signore, vicino alla sua auto, che morde qualcosa, probabilmente la sua merenda di metà mattina. “Buongiorno” – educatamente saluto – “Salute” – è la risposta che ritorna – “Buon appetito” – continuo. Questa volta la risposta non è fatta di parole ma di gesti, quel signore mi fa chiaramente intendere che mi ospiterebbe volentieri alla sua “tavola” alzando con una mano del pane per ben mostrarmelo e, con l’altra, un qualcosa che da lontano non riesco a distinguere. Mi avvicino, ci speravo proprio, ho fame anch’io e stavolta non ho niente con me. “Buongiorno” – ripeto – “Grazie” – aggiungo, a quel punto cosa si mangia non ha importanza, il momento è conviviale, vero, schietto, genuino.

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Antonio, un pastore che è lì dalle prime luci dell’alba, si sta concedendo il meritato ristoro e, con la generosità tipica delle genti di queste parti, lo condivide con me in cambio semplicemente della mia compagnia. Pane casereccio e funghi sott’olio, raccolti da lui, con un irrinunciabile sorso di buon vino rosso tirato giù direttamente dal bottiglione incastrato nel cofano della vettura.

Antonio mi mostra orgogliosamente il suo gregge che sta brucando l’erba del sottobosco nella gravina sottostante il magnifico ponte,

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mi chiede se sto bene, facendo chiaro riferimento alla pandemia, poi aggiunge di essere preoccupato non tanto per sé stesso, ma per loro – indicando con la mano le pecore e le capre sotto il ponte – “Io sono solo, tutti i miei parenti vivono in città, lontano da qui, se io mi ammalo chi si prenderà cura di loro”? – mi confida mentre mi offre un altro pezzo di pane e funghi. Non posso non chiedergli di fare una foto con lui e, senza ritrosia alcuna, Antonio si offre al mio selfie poi, con decisione, ma gentilissimo, dice di dovermi lasciare per badare a “loro” (ormai sappiamo di chi si parla); sto per ringraziarlo della sua amichevole ospitalità ma Antonio, lesto, mi precede: “Grazie per la compagnia e per le chiacchiere, mi raccomando non correre”, richiude la macchina lasciandola a margine del selciato e, con quattro salti, più agile di uno stambecco, è già giù da “loro”.

Ciao Antonio, grazie a te” (dico tra me e me, non so se mi ha sentito)… risalgo sulla moto, sazio, pieno non di cibo ma di umanità, dentro di me lo ringrazio ancora una volta.

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Il ponte curva verso la montagna, che in quel punto è quasi bianca, e sembra che la Terra per ospitarti usi proprio la montagna che ti apre il suo ventre e tu, prima di entrare, ti fermi ammirato, incantato… rispettoso… e ti senti un privilegiato… ed entri in un’altra dimensione.

Sparito. Come Antonio, anche il ponte è sparito. Me li lascio alle spalle con una bella serpentina che continua a farsi spazio tra le rocce. Ormai ci sono, il cartello stradale mi dice 6 chilometri, 6.000 metri di curve e tornanti dall’asfalto così e così ma, sapendosi accontentare, ci si diverte ugualmente.

Gli ultimi due o tre chilometri sono di un asfalto che porta addosso le cicatrici di un territorio che non dà tregua, inferendo, troppo spesso, frane e smottamenti, ma ne varrà la pena, questo è certo!

Eccolo! Le ultime tre o quattro curve sono ancora su un livello stradale sopraelevato rispetto al punto di arrivo così da permettermi di godere di una panoramica a dir poco emozionante.

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Non esagero, è emozione quello che si prova giunti al cospetto di questo luogo, ideato, voluto e creato da un visionario, da un qualcuno che ha immaginato, pensato ed elaborato un disegno ritenuto (dai più) inattuabile, un sognatore.

L’area è protetta, custodita e normalmente inaccessibile se non a piedi.

Già, normalmente!

Ma cosa ha di normale chi dell’andare in moto ne fa la propria filosofia di vita, chi considera la moto una parte di se, chi sfida (a volte perdendo) le leggi della fisica ad ogni curva, chi dalla propria cavalcatura assorbe una sfrontatezza (dire coraggio mi sembrava eccessivo) che probabilmente privo di essa non avrebbe?

Ed è proprio quella sfrontatezza che mi fa chiedere (con il massimo garbo) al custode di aprire il cancello di accesso e permettermi di oltrepassare, senza scendere dal mio destriero d’acciaio, quella linea che separa il presente, contemporaneamente, dalla storia e dal futuro. E incredibile, non so perché, ma la magia avviene. Il custode, forse spiazzato da una richiesta che non pensava mai qualcuno potesse fargli, forse confortato dal fatto che in quel momento il sito era privo di visitatori, acconsente!!! Incredulo, dopo averlo immensamente ringraziato e dopo avergli promesso che mi sarei fermato dopo soli cento metri, oltrepasso il varco.

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Si, sono solo 100 metri ma, credetemi, quei cento metri hanno trasformato la mia moto in una macchina del tempo che mi ha trasportato non solo nel passato, ma anche nel futuro.

Non sono pazzo, ora vi spiego.

Intanto ho mantenuto la promessa di girare subito la moto e, dopo un paio di click, sono uscito dall’area col “mezzo non autorizzato”.

Qui il viaggio assume un’altra dimensione e va vissuto con gli stessi occhi di chi, più di due secoli fa, pensò alla costruzione di un centro abitato, architettonicamente ed urbanisticamente, strutturato secondo canoni mai visti fino ad allora ed utilizzati oggi nei modelli di società più evoluti.

Questo è un luogo fortemente voluto da un visionario di fine XVIII secolo, costruito nel feudo assegnatogli da re dell’epoca. Un centro che si sviluppa su un modello urbanisticamente poco credibile per quei tempi.

Oggi, se una frana, l’ennesima, un secolo e mezzo più tardi dalla sua realizzazione, non avesse distrutto quel sogno, non starei visitando un sito archeologico ma condurrei la mia moto in un villaggio generato secondo un’idea futuristica.

Non è un caso che questo posto oggi sia noto come “La città dell’utopia” (più di qualcuno avrà già capito di quale luogo magico sto scrivendo).

I discendenti degli abitanti di quel villaggio oggi vivono in un grazioso paesino situato più a monte, al riparo dalle frane, e conta meno di 800 anime.

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Questo viaggio, non solo quello in moto, ma anche quello di introspezione nella mente di un visionario, è stato fantastico, come sempre zeppo di momenti adrenalinici e di esperienze, anche umane, da raccontare. Ma anche questo, inesorabilmente, ha un capitolo finale, un capitolo che spesso si dedica ai ringraziamenti ed io voglio fare lo stesso; voglio ringraziare Antonio, il pastore, per avermi inaspettatamente “sfamato” e ricordato che la vera ospitalità è quella offerta agli sconosciuti, il custode della “Città dell’Utopia” (del quale, ovviamente, ho conosciuto anche il nome ma che, ovviamente, non divulgherò, non si sa mai che qualche amministratore precisino pensi di fargli passare un brutto quarto d’ora a causa della sua “gentil concessione” nei miei confronti) e, naturalmente la mia amica moto, la quale ingenuamente crede di trasportare il mio corpo ma, invece, fa viaggiare la mia anima.

Come è mia strana abitudine fare, le presentazioni le lascio alle righe finali.

Il piccolo centro dove mi guardavano strano perché ostentavo il saluto dei bikers è Oliveto Lucano (https://www.basilicataturistica.it/territori/oliveto-lucano/).

Il ponte con Antonio il pastore lo si incontra sulla strada tra Oliveto Lucano e la “Città dell’utopia” (https://www.basilicataturistica.it/attrattore/la-citta-dellutopia-campomaggiore-vecchio/).

Il visionario è, anzi fu, il Conte Teodoro Rendina, leggete la sua storia e capirete , se non ci sono riuscito io, vi convincerà lui a visitare “la città dell’utopia”, ne sono certo! (http://briganti.info/la-citta-dell-utopia-che-non-conosceva-la-poverta/).

La “Città dell’utopia” è Campomaggiore vecchio (https://it.wikipedia.org/wiki/Campomaggiore)

La regione che ospita questi preziosi scrigni è la Basilicata (https://www.basilicataturistica.it/)

Come sempre l’itinerario è a disposizione di chiunque me lo chieda, anche attraverso Instagram, ma, come ripeto ogni volta, la strada più bella è quella che disegniamo nella nostra mente e dopo mordiamo col nostro battistrada.

Buona moto a tutti.

Angelo

Sulla macchina (….ehmmm sulla moto) del tempo (viaggio nella terra dell’utopia)ultima modifica: 2020-12-18T13:07:04+01:00da diabolikgs63
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