Il Gigante e la Bambina

COPERTINA GIGANTE

Nel corso del mio girovagare in sella alla mia rombante amica a due ruote, tagliando in lungo ed in largo i più profondi paesaggi collinari della Basilicata, li ho visti!

Altissimi, immensi e fieri, erti sulle sommità più alte di bucolici poggi che, a seconda delle stagioni, variano i loro colori, mostrando l’ocra e l’argilla durante i freddi inverni, ricoprendosi di verde smeraldo quando le rondini aprono le porte della primavera,  trasformandosi in mari color oro quando l’astro solare splende incontrastato negli azzurri cieli delle estati meridionali. Mari dorati che, solcati dal vento tipico delle alture collinari, fluttuano cullando lo sguardo dell’uomo similmente al mare quando spumeggia dondolando le barche dei pescatori.

No, non è una favola. O, meglio, non è una favola inventata, un racconto di fantasia, ma una favola reale, presente, che può capitare a tutti di vivere quando, soprattutto in moto, si gira da queste parti.

E’ proprio lì che abitano i giganti del vento, bianchissimi e instancabili. Per scorgere le loro teste lo sguardo deve arrampicarsi in alto, più in alto delle sommità sulle quali i giganti dimorano. Talmente su devono alzarsi gli occhi dell’uomo che il brillare abbacinante del sole li costringe ad arrendersi e a cercare riparo dietro la benefica ombra procurata da una caritatevole mano posata sulla fronte a simulare il saluto militare.

Soli a dominare le valli sottostanti.

Tante sono le volte che mi sono detto: “Un giorno verrò a trovarvi, a curiosare nel vostro arioso regno e a sentire il vostro respiro”.

Da pochi giorni è arrivata la stagione del risveglio ed oggi mi sembra proprio il momento giusto. “Ci vado! Oggi faccio visita ai giganti”.

Detto fatto, si va, si monta in sella e si dà inizio a questa nuova avventura.

Si sa, il Regno dei Giganti, pur essendo ben visibile anche da lontano, è in fondo a vie tortuose e nascoste, non presenti sulle mappe convenzionali.  E’ protetto da un dedalo di strade sulle quali è fantastico andare con il proprio cavallo d’acciaio.

Talvolta il battistrada morde un asfalto, sbiadito dal tempo, che avanza a fatica tra territori rurali che a tratti ne reclamano l’appartenenza trasformando il nastro grigio in percorsi sterrati. E’ proprio come me l’aspettavo, oggi l’immersione nella natura è totale.

Il serpentone che percorro scivola via nei paesaggi campestri che inducono alle alture attraverso un susseguirsi di curve, a volte dolci, a volte aspre, sempre rivolte al vento che spira verso la casa dei giganti.

Il territorio è disseminato di desolate abitazioni rurali che pochi lustri or sono conoscevano certamente un aspetto più dignitoso quando la madre terra era la principale fonte di sostentamento delle famiglie che se ne prendevano cura.

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Scendo attratto da quegli abitati ora spopolati e mi soffermo a respirare quell’aria che in quel momento è solo mia e, viaggiando (senza moto) nel passato, mi ritrovo a rievocare l’immagine di un tempo in cui il capo famiglia si levava dal giaciglio notturno che era ancora buio e varcava l’uscio dell’umile dimora per andare a dare del tu a quella terra che in cambio offriva i frutti che servivano per mandare avanti la famiglia. Era il tempo in cui i bambini, rimasti a casa con la madre, vedevano rientrare il genitore dalle fatiche del lavoro rurale che era quasi buio ed il regalo per loro era ricevere la carezza di una mano increspata ed indurita dal gravoso lavoro. Quella mano, sulle loro tenere guance, era come una raspa che limava una tavoletta di burro.

Lo sterrato si alterna a tratti di asfalto che mi consentono di innestare marce che vanno oltre la seconda e che mi proiettano sempre di più verso il punto di arrivo.

Esso è lì, si intravede, ma per arrivarci c’è ancora qualche valle da scendere e risalire e qualche collina da aggirare.

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I paesaggi che incontro e che scorrono sul mio tragitto sono alterni, a volte brulli tanto da non aver permesso all’uomo di poterli dissodare, altre volte fertili ed ordinati, frutto di un sapiente lavoro che prelude ad una paziente attesa del raccolto che verrà. Sono entrambi simbolo di un territorio bellissimo che attraversare in piena libertà, quella libertà che solo l’andare in moto regala, affascina la vista e riempie l’anima.

In certi tratti l’asfalto finisce per lasciare il posto a stradine sterrate e sembra che ciò succeda per rispetto, per riguardo verso la natura, come se un accorto homo sapiens abbia voluto ossequiarla evitando di macchiare, con il grigio del bitume, il colore dei boschi spontanei e delle terre abilmente coltivate.

Forse non è andata proprio così ma mi piace pensarlo.

Anche per questo oggi non c’è velocità, non ci sono pieghe al limite, non si incrociano altri fratelli in moto da salutare alzando l’indice e il medio divaricati della mano sinistra, oggi c’è la libertà, c’è l’essenza pura dell’idea di andare in moto, c’è un mondo che appartiene solo a noi che abbiamo scelto una moto per amica.

Il percorso ora è tutto in salita, una leggera salita, tranne che per pochi metri ove,  più ripido, sembra davvero impaziente di arrivare lassù dove abitano i giganti.

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Sto per giungere in cima al colle più alto su cui si apre una piccola radura brecciata, bianca, molto bianca, dove, ad intervalli regolari, si proietta un fascio di ombra scura e si ode l’aria che si muove come fosse un respiro. Il fascio d’ombra ed il respiro sono una cosa sola, quando c’è l’una c’è l’altro, se uno non c’è l’altra neppure.

 

 

 

Potrei anche fare a meno di alzare lo sguardo, lo percepisco, ci sono, sono nel regno dei giganti, anzi sono ai piedi del più alto tra tutti!

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E’ lì, guardiano dell’intera valle abitata dai suoi simili.

Sembra quasi che dia loro il ritmo, la precisa cadenza che serve per raccogliere al meglio il vento che, sempre sveglio, popola questi cieli infiniti.

Lavora infaticabile, il gigante tra i giganti, dando esempio ai suoi fratelli che, altrettanto instancabilmente, lo imitano roteando le braccia mentre il cielo che è sopra raccoglie i loro respiri e la terra che è sotto raccoglie le loro ombre.

Bene, è ora il tempo di fissare il ricordo di questo incontro ed allora, col suo respiro nelle orecchie, avvicino ai piedi del colosso la mia cavalcatura e, chiedendo ad entrambi di  non muoversi e di sfoderare il loro migliore sorriso, finalmente scatto il click che immortala il Gigante e la Bambina.

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(Ingrandite la foto sennò la “bambina” non si vede, tanto è alto il “gigante”)

 

 

 

 

Per rientrare scelgo un percorso che, per bellezza dei luoghi attraversati, non delude, passando attraverso piccoli villaggi rurali ove, al mio rombante passaggio, la gente, in particolare i bambini, mette la testa fuori dalle case ed accenna un gesto di saluto. Si tratta di poche abitazioni, una chiesa ed una villetta (piazzetta) dove la vita scorre tra lavoro e semplicità delle persone e delle azioni. Si percepisce che ogni spazio del piccolo abitato è uno spazio comune, senza linee di confine tra la vita di una famiglia e quella di un’altra. Piccoli particolari che mi colpiscono come quello di vedere che, tra i muri di una casa e l’altra, sono tesi i fili per stendere i panni lavati ad asciugare, indifferentemente se siano della massaia della casa di destra o di sinistra, non dando importanza se una delle due massaie va oltre la metà del filo che in teoria apparterrebbe alla sua proprietà.

Il protocollo consiglia di attraversare questi luoghi facendo girare le ruote talmente piano da poterne distinguere i raggi ed alzando la visiera dell’elmo, pardon del casco, per godere appieno di quella magica atmosfera.

Chi sono io per non rispettare il protocollo?

Infatti lo rispetto e meno male! Il passo d’uomo e la visiera del casco alzata fan si che, attraversando una delle scene descritte, il mio olfatto, privo di barriere, catturi l’odore di un forno che cuoce chissà quale prelibatezza. Un odore che mi prende come il canto delle sirene prese Ulisse. Ma per fortuna io non sono Ulisse, non sono legato, e posso fermarmi per sniffare l’aria goduriosamente impregnata.

Il profumino proviene da una casetta a fianco alla quale c’è una delle suddette massaie intenta a posare i panni lavati su uno di quei fili tesi tra le costruzioni.

Arresto l’andatura e, col linguaggio inequivocabile dei gesti, faccio capire alla donna quanto sublime sia la fragranza che arriva da casa sua fino alle mie narici. Sempre con la stessa lingua le faccio i complimenti per le sue doti da cuoca.

A volte è proprio vero che non servono le parole. La massaia, ben conscia del fatto che un gesto sarebbe stato molto più eloquente di tante spiegazioni, mi fa segno, come farebbe un vigile urbano per fermare un veicolo allo stop, di aspettare un attimo prima di ripartire. Passa davvero qualche brevissimo minuto ed eccola venir fuori dall’uscio con del pane, ancora fumante, appena tirato fuori dal forno, adagiato su un canovaccio pulito portato sulle mani protese verso di me in segno di condivisione. Non ancora soddisfatta, preleva da un cestino in vimini, presente per terra vicino all’entrata della dimora, dei pomodori, rossi come le guance di un neonato che ha appena finito di ciucciare il suo latte, e me li porge.

Fantastico! Ringrazio, un po’ imbarazzato, avrei voluto abbracciarla ma lei, troppo indaffarata, ritorna lesta verso i panni bagnati rimasti nella cesta del bucato.

Sono abiti da lavoro ed ogni giorno sono ripetutamente puliti e freschi perché, anche se chi li indossa lavorerà la terra e li ridurrà di nuovo come prima, devono essere sempre degni dell’uomo che al mattino li indosserà per recarsi a dissodare i campi.

Mi rimetto in sella ma giusto per spostare di là la moto e trovare un “comodissimo” muretto che sarà il mio tavolo prenotato al ristorante stellato della zona. Quel pranzo ha il vero sapore dell’ospitalità e, idealmente, lo condivido col padrone di casa che lo consumerà di li a poco, rientrando dal lavoro campestre.

5 stelle, un pranzo a 5 stelle non segnalato sulla guida Michelin.

MURETTO

Non solo borghi rurali, animano il tragitto che percorro, ma anche curve immerse in boschi di fitta vegetazione che è un piacere scorrere con le ruote mosse ora dalla quarta, ora dalla terza ed a volte, in tornanti verdeggianti, dalla seconda con il motore che sale di giri e suona musica per le mie orecchie.

Davvero straordinario!

Non tanto per dire, ma solo con la moto si può “incappare” in tanta meraviglia. Immaginate se fossi passato di lì con l’auto, nel mio confortevole guscio di lamiere e vetri, probabilmente non avrei mai potuto annusare l’odore del pane appena cotto, figuriamoci poi se la signora si sarebbe mai avvicinata a offrirmi parte del pranzo della sua famiglia. Mi sarei perso tutto questo!

Torno a casa nel tardo pomeriggio, mia moglie mi chiede se voglio mangiare qualcosa, se ho fame. “No grazie, sono sazio, ho già mangiato”. “Cosa”? “Pane, pomodoro e…. felicità”.

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Se volete, il gigante ed i suoi sudditi li trovate nel parco eolico che si trova, nella provincia di Matera, tra Borgo Venusio ed il borgo rurale di Picciano “A”. Per arrivarci, partendo dalla statale 96, nel tratto tra Altamura e Gravina in Puglia, ho condotto un itinerario che ho creato autonomamente, navigando su Google Earth, e che ho trasformato in una traccia che ho seguito utilizzando un apparecchio GPS (si puo utilizzare un navigatore tipo Garmin o telefonino con l’app Oruxmaps – scaricabile da internet). Per rientrare sono passato attraverso il borgo di Picciano “B”. Una volta lì, per rientrare alla base, come sempre, ho scelto di andare sulla strada meno diretta.

Durante il giro sono andato su un percorso composto da strade secondarie, parzialmente in off road (50% circa). Per queste ultime è necessario avere un po’ di dimestichezza con la guida della endurona in fuori strada.

E’ molto bello e suggestivo anche se non è fatto per gli amanti della velocità.

Se volete potete liberamente contattarmi e vi invierò il link del tracciato.

 

Buona moto a tutti.

Il Gigante e la Bambinaultima modifica: 2019-08-31T22:48:40+02:00da diabolikgs63
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